Dalla Russia un controllore

Autobus n° 36 – Trieste. A Roma l’autobus è maschile. Si dice “Aspetto IL 36”. A Trieste, invece, è femminile. “LA 36”. Se a Roma gli autobus sono giovani coattelli senza regole, a Trieste sono vecchie signore goffe ma puntuali.

Salgo a bordo diretto a Barcola e trovo un controllore che sta multando dei ragazzi. Mi siedo a fianco di una signora di mezza età e guardo fuori dal finestrino. Piazza Oberdan. Alla fermata, sull’attenti, c’è un altro controllore pronto ad avventarsi sulla prossima linea. Al semaforo, un autobus ci passa a fianco. E a bordo intravedo…un terzo controllore! Mi volto verso la signora e le chiedo da quando Trieste sia diventata un regime totalitario della Trieste Trasporti. Lei sgrana gli occhi:

– C’è il controllore?

– Qui dietro.

La donna si lancia a timbrare il biglietto, aggrappandosi qua e là come Tarzan. Le tengo il posto e, quando torna, mi ringrazia col fiatone.

Per l’accento, avrei giurato fosse slovena. Invece è russa e vive in Italia da 10 anni. Non sa cosa succeda oggi, in genere i controlli sono rari. Io le rispondo che a Roma i controllori girano in piccoli branchi da 3 unità, e attaccano gli autobus più vuoti, abitati solo da studenti o da pakistani. E, come i vigili urbani, quando servono non ci sono mai.

Dietro di noi, il controllore continua a fare multe a gogò. C’è una calma inverosimile, come se stesse elargendo inviti a pranzo.

Immagine

Roma. Controllori si preparano a salire sull’autobus.

Vera, prima di venire a Trieste, ha vissuto qualche anno a Milano. Ora fa l’operatrice socio sanitaria presso una casa di riposo, ma mi confessa che non ha fatto sempre questo mestiere. Ha dovuto reinventarsi una volta lasciato il suo paese. Mi informa che l’operatore socio sanitario è una professione che a Trieste, Geriatric City, va molto. Un po’ come il petroliere in Medio Oriente.

Immagine

Operatori socio sanitari di Trieste

Le dico di cosa mi occupo io, usando parole generiche. Invece lei mi guarda con occhio vispo, di chi sa benissimo di cosa sto parlando.

Nella Moldavia retta dal regime comunista, Vera non era un’operatrice socio sanitaria. Era una “lettrice”, impiegata presso la principale casa di produzione cinematografica del paese. Il suo lavoro consisteva nel leggere le sceneggiature che arrivavano e procedere a una prima scrematura: quelle che non corrispondevano ai dettami del regime venivano subito bocciate.

L’autobus corre lungo Viale Miramare. Non avrò molto tempo per parlare, le corse a Trieste durano poco. La tempesto di domande e lei ne è felicissima. Mai avrebbe pensato di incuriosire qualcuno sulla 36, sparata verso il mare.

Vera mi racconta che se nella sceneggiatura il capitalista non veniva dipinto come estremamente cattivo, il film non sarebbe andato in porto. Poi mi guarda negli occhi e sembra chiedermi scusa.

– Io non sapevo cosa faceva il regime. Cosa faceva davvero.

Solleviamo il velo di Maya. Vera mi spiega che il regime non ha quel tipo di censura che possiamo immaginare. È molto più subdolo.

– Brecht, ad esempio, lo conoscevamo. Lo studiavamo – mi dice – ma non studiavamo niente per intero. Solo ciò che era permesso. Però, cosa fosse permesso, mica ce lo dicevano!

Vera era in buona fede quando bocciava una storia con dentro un capitalista buono. Perché sapeva (credeva) che la sua istruzione fosse completa, visto che studiavano pure gli intellettuali ufficialmente “scomodi”. Ed era fermamente convinta che il pensiero comunista, come inculcatole a scuola, fosse davvero il futuro. Solo dopo ha capito che non gliela raccontavano tutta.

Immagine

Da noi è diverso.

La censura peggiore non è quella del “blindiamo tutto”. È quella che ti illude di fornirti gli strumenti necessari per capire il tuo presente.

Il presente. Mi parla di suo figlio. Ha 28 anni, poco più di me, e vive in Romania. Lei vorrebbe tanto che si mettesse a studiare qualcosa che gli porti il lavoro subito. Infermieristica o fisioterapia. Ma lui non vuole. Gli piace… (la musica? Il cinema?) … Giurisprudenza.

Scuote il capo sconsolata ma serena. – Ma se gli piace, che studi quello, no?

Sono d’accordo. La saluto e mi ringrazia ancora. Suono il campanello e mi ritrovo sul lungomare di Barcola. Due fermate oltre a quella dove dovevo scendere.  

Skaiosgaio

Scritto ascoltando “Road to nowhere” dei Talking Heads.